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Todra, al villaggio di Nayma

Mi lascio alle spalle i lussureggianti campi coltivati di fondovalle, attraverso il torrente, mi addentro tra le rovine della Kasbah di Tizgui, dove i muri hanno la stessa tinta marrone della terra su cui sorgono. Oltre gli ultimi edifici pericolanti eccomi nel nulla antropico dei pendii detritici intervallati dalle pareti rocciose, immerso in tutte le sfumature dell’ocra. L’odore di terra polverosa, la cui monotonia è interrotta solo di tanto in tanto dall’aroma del timo selvatico, pizzica le narici. 

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All'imbocco di Todra le vecchie Kasbah vengono sostituite da nuovi insediamenti

La salita è faticosa, battuta da un sole implacabile, nonostante sia la fine di ottobre.

Dopo un’ora di monotona marcia, ecco il valico, con le sue promesse di nuove immagine ed odori. Ma l’aspettativa è frustrata da nuovi altopiani stepposi, solo vagamenti segnati da esigue piste da capre. 

Secondo la mia cartina giusto lì sopra dovrebbe sorgere un villaggio berbero, così mi aspetto di avvistarlo da un momento all’altro. Ne ho già incontrati, sui monti dell’Atlante, con le case disposte a gradinata lungo i pendii, il tetto piatto dell’edificio inferiore che fa da terrazzo a quello che lo sovrasta.

Un breve cammino ed eccolo, l’insediamento segnato sulla mappa è davanti a me: pochi, modesti ricoveri, quasi degli igloo scavati nella terra lungo una scarpata, intervallati da alcuni ovili in pietra a secco e da un paio di basse tende scure. Ricorda un pueblo andino, annidato dai suoi costruttori tra le pieghe delle montagne quasi a volerlo nascondere dal mondo.

Non fosse per l’abbaiare dei cani che mi accoglie da lontano, lo direi abbandonato.  Tradisce la presenza umana solo da un filo di fumo che sale da uno dei ricoveri. Al mio avvicinarsi, ecco due persone sedute sui muretti a secco alzarsi in piedi ad accogliermi.

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Il villaggio tra le pieghe delle montagne

Un signore anziano e una bambina. Lascio il percorso principale e a passi lenti salgo a stringere la mano al patriarca che si avvicina un po’ malfermo sulle gambe.  Mi sorprende notare che invece della lunga veste tradizionale chiamata djellaba indossi una giacca e dei pantaloni grigio scuro consunti, nonché un paio di scarpe da tennis sformate. 

Come vuole la tradizione locale dell’ospitalità mi propone un the alla menta, whisky berbère lo chiama,  e con un gesto mi invita ad accomodarmi sotto una tenda, poi sparisce in uno dei loculi.

Al mio esitare nell'accettare l'invito, la bambina lo rinnova a gesti: mi decido, la precedo ed entro. 

Dentro Aziz, questo il nome del mio ospite, in un misto di arabo, berbero, francese e inglese mi fa capire che lui è “father father” della bambina, sua nipote Nayma: quattro anni, occhi vivaci color nocciola, capelli biondi e lineamenti paffuti. Veste abiti di lana dai colori sgargianti e un paio di ciabattine di feltro. 

La tenda scura sotto la quale siamo accomodati è bassa, per entrarvi si è costretti ad accovacciarsi, per poi andare a sedersi su uno dei numerosi, piccoli cuscini di raso colorato allineati lungo il perimetro e appoggiati sui tappeti che ne costituiscono il fondo.

La bimba ha con sé uno zainetto scolastico da cui estrae una scatola di latta rotonda vuota, di quelle delle caramelle. E’ il suo piccolo tesoro, me lo mostra con orgoglio.  Metto alcuni sassolini nella scatola, li faccio risuonare agitandola, poi la facciamo rotolare sui tappeti della tenda.

Nayma è entusiasta di questo nuovo, semplice gioco!

Una donna con un lungo abito, di certo la moglie di Aziz, porta un vassoio con il the prima di scomparire nuovamente in uno dei ricoveri. La teiera è panciuta, di acciaio, con il manico decorato e il becco sinuoso mentre i bicchieri sono piccoli, semplici e robusti, leggermente svasati.

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Le scarpe di un giovane pastore incontrato sulle alture che sovrastano le gole di Todra

Il nonno serve il the con sicurezza allontanando la teiera dal bicchiere in un lungo zampillo. Il bicchiere pieno viene riversato nella teiera per ben tre volte in un rito che ha radici lontane.

La bevanda fumante ha un vago sapore di menta e nel berla alcune foglioline in sospensione restano appiccicate alla lingua. Bevo volentieri e, alla vista del bicchiere vuoto, Aziz lo riempie più volte fino a svuotare la teriera.

Mi parla nel suo strano idioma multilingue, fatico a seguirlo. Parla anche di Nayma, lo comprendo quando dice, ridendo: “Nayma bad girl”. La sta prendendo in giro, tanto che lei si finge contrariata e si vendica colpendolo con dei pugnetti sulla spalla.

L’ultimo sole si infila radente sotto la tenda accendendo i capelli d’oro di Nayma e sottolinea le rughe e lo sguardo apparentemente vacuo di Aziz, che soffre di una spiccata opacità corneale. Questo momento mi riempie il cuore di meraviglia e di suggestione, ma non chiedo loro di scattare una foto. Immortalare quest’attimo rappresenterebbe un “successo” da mostrare orgogliosamente ai miei amici.  Lasciarlo impresso nella memoria sarà altra cosa, comunanza di sensazioni con l'ambiente e i miei ospiti impressi nel cuore.  

Si sta facendo tardi ed è ora di ridiscendere alle gole di Todra prima di essere sorpresi dal buio. Saluto Nayma e Aziz, lascio, cercando di farlo con delicatezza, qualche moneta senza che loro mi abbiano chiesto nulla. Lungo il cammino incontro alcune donne e un ragazzino che salgono al villaggio berbero con due asini e il quotidiano carico d’acqua necessario a sopravvivere lassù. Scoprirò nei giorni successivi che i loro uomini restano lontani dal villaggio anche per giorni accudendo le capre al pascolo.

Giù nelle gole i turisti se ne sono andati e i venditori di stoffe si godono il meritato relax chiacchierando tra loro. Di Todra avevo sentito parlare spesso come di una bella meta per scalare su roccia nel periodo invernale. Da “neocolonialista” sognavo l’accesso alle gole con i muli, antiche kasbah in cui alloggiare con pochi confort e arrampicate esplorative.

Ma da tempo è arrivata la strada carrozzabile e con essa i turisti e la modernità. I berberi che abitano il fondovalle si sono costruiti nuove case, grandi e comode. Le vie di arrampicata sono state attrezzate sistematicamente e ora sono decisamente “plaisir”.

Tuttavia è bastato allontanarmi di poco dalla bolla di confortevole modernità del fondovalle per ritrovarmi nel tempo di ieri, nella sua povera ma felice semplicità.

Tornerò a Todra, risalirò al villaggio Di Nayma ed Aziz.Li troverò ancora lì, contenti del   loro perfetto, felice poco? O mi accoglieranno il silenzio e la patina di polvere che tanto spesso, nei miei viaggi, ho visto coprire il vissuto di chi se ne è andato a cercare il nuovo?

 

gio 21

La ns squadra a Todra: Federico, Mario, Giò, Maura, Beppe e Stefy

 

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In arrampicata sulle pareti di Todra

 

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